Salvini vuole il Viminale. E Meloni che fa? Conta i coltelli.
di Luciano Di Gregorio
Matteo Salvini non ha mai fatto mistero di voler tornare al Viminale, il ministero da cui ha costruito la sua fortuna mediatica e il suo storytelling muscolare. Come un ex attore che rivuole il suo ruolo iconico, continua a bussare al camerino del Ministero dell’Interno con lo stesso sguardo di chi dice: “Quel posto è mio, l’ho reso famoso io.”
E forse, da un certo punto di vista, non ha tutti i torti: nessuno ha trasformato il Viminale in uno show personale come Salvini nel 2018-2019. Ma il problema non è tanto la nostalgia da palcoscenico. Il problema è che la regista oggi è un’altra: Giorgia Meloni. E lei non sembra affatto intenzionata a rimettere in scena quella tragicommedia.
Meloni, la regia solitaria
Giorgia Meloni si è costruita una leadership fondata su due pilastri ben cementati: verticalità e controllo. Il primo impone che si sappia chi comanda, il secondo che nessuno rubi la scena. E Salvini – con la sua agenda parallela, le sue sparate sui migranti, il flirt intermittente con Putin e le ruspe da barzelletta – è tutto ciò che Meloni vuole evitare: imprevedibilità, esposizione, concorrenza.
Quindi, mentre Salvini alza il volume sulla “sicurezza”, sul “blocco navale” e sul “ritorno all’ordine”, Meloni fa ciò che fa meglio: finge di ignorarlo e poi si muove col coltello sotto il tavolo. Nessun attacco diretto, ma un isolamento costante, un ridimensionamento lento e chirurgico.
Il Viminale è potere
Perché Salvini vuole davvero il Viminale? Perché è il cuore mediatico del governo. È lì che si annunciano le “emergenze”, si firmano i decreti, si fanno le conferenze stampa con i numeri delle espulsioni. È il luogo dove puoi parlare alla pancia del Paese senza passare da Palazzo Chigi.
Ma proprio per questo, Meloni non glielo darà mai. Perché il Viminale oggi è il contrappeso alla Presidenza del Consiglio, e lasciarlo a uno come Salvini significherebbe accettare il caos, il dualismo, la guerriglia interna. Meloni non è Conte. Non si fa fregare da chi urla più forte.
La Lega, una finta alleata
In tutto ciò, la Lega è diventata il vero enigma della maggioranza. Da un lato appoggia ogni provvedimento, dall’altro continua a marcare il territorio come un cane in cerca di padroni. Salvini vorrebbe tornare il leader sovranista per eccellenza, ma è incastrato in un governo che non è suo, non è populista, non è nemmeno tanto “di destra” quanto sembra.
I sondaggi lo dicono chiaramente: la Lega non cresce. Il blocco meloniano ha divorato lo spazio che un tempo era leghista, e Fratelli d’Italia è riuscito dove Salvini aveva fallito: istituzionalizzare il radicalismo.
E adesso?
Adesso Salvini preme. Meloni finge di non sentire. Ma sotto la superficie, si prepara una guerra di posizione. Non sarà una crisi di governo, ma una serie di mini-battaglie: poltrone europee, rimpasti, rapporti con la Francia, il patto di stabilità, e naturalmente l’eterna questione migratoria.
Meloni ha dalla sua il comando e l’agenda. Salvini ha solo la nostalgia di un’epoca in cui i porti chiusi erano una bandiera e non una stanca replica.
Conclusione
Salvini vuole tornare protagonista. Meloni vuole evitare il remake. Il Viminale è il simbolo di un potere che oggi non appartiene più al Capitano, ma alla Premier. E Giorgia non ha alcuna intenzione di lasciare il timone. Sa benissimo che, in politica, quando apri una porta per accontentare qualcuno, poi ti trovi a chiudere le finestre per sopravvivere.
E lei, per ora, vuole solo una cosa: restare viva al centro della scena. Anche a costo di vedere Salvini recitare fuori copione, nel retropalco.
Salvini vuole il Viminale. E Meloni che fa? Conta i coltelli.
di Luciano Di Gregorio
Matteo Salvini non ha mai fatto mistero di voler tornare al Viminale, il ministero da cui ha costruito la sua fortuna mediatica e il suo storytelling muscolare. Come un ex attore che rivuole il suo ruolo iconico, continua a bussare al camerino del Ministero dell’Interno con lo stesso sguardo di chi dice: “Quel posto è mio, l’ho reso famoso io.”
E forse, da un certo punto di vista, non ha tutti i torti: nessuno ha trasformato il Viminale in uno show personale come Salvini nel 2018-2019. Ma il problema non è tanto la nostalgia da palcoscenico. Il problema è che la regista oggi è un’altra: Giorgia Meloni. E lei non sembra affatto intenzionata a rimettere in scena quella tragicommedia.
Meloni, la regia solitaria
Giorgia Meloni si è costruita una leadership fondata su due pilastri ben cementati: verticalità e controllo. Il primo impone che si sappia chi comanda, il secondo che nessuno rubi la scena. E Salvini – con la sua agenda parallela, le sue sparate sui migranti, il flirt intermittente con Putin e le ruspe da barzelletta – è tutto ciò che Meloni vuole evitare: imprevedibilità, esposizione, concorrenza.
Quindi, mentre Salvini alza il volume sulla “sicurezza”, sul “blocco navale” e sul “ritorno all’ordine”, Meloni fa ciò che fa meglio: finge di ignorarlo e poi si muove col coltello sotto il tavolo. Nessun attacco diretto, ma un isolamento costante, un ridimensionamento lento e chirurgico.
Il Viminale è potere
Perché Salvini vuole davvero il Viminale? Perché è il cuore mediatico del governo. È lì che si annunciano le “emergenze”, si firmano i decreti, si fanno le conferenze stampa con i numeri delle espulsioni. È il luogo dove puoi parlare alla pancia del Paese senza passare da Palazzo Chigi.
Ma proprio per questo, Meloni non glielo darà mai. Perché il Viminale oggi è il contrappeso alla Presidenza del Consiglio, e lasciarlo a uno come Salvini significherebbe accettare il caos, il dualismo, la guerriglia interna. Meloni non è Conte. Non si fa fregare da chi urla più forte.
La Lega, una finta alleata
In tutto ciò, la Lega è diventata il vero enigma della maggioranza. Da un lato appoggia ogni provvedimento, dall’altro continua a marcare il territorio come un cane in cerca di padroni. Salvini vorrebbe tornare il leader sovranista per eccellenza, ma è incastrato in un governo che non è suo, non è populista, non è nemmeno tanto “di destra” quanto sembra.
I sondaggi lo dicono chiaramente: la Lega non cresce. Il blocco meloniano ha divorato lo spazio che un tempo era leghista, e Fratelli d’Italia è riuscito dove Salvini aveva fallito: istituzionalizzare il radicalismo.
E adesso?
Adesso Salvini preme. Meloni finge di non sentire. Ma sotto la superficie, si prepara una guerra di posizione. Non sarà una crisi di governo, ma una serie di mini-battaglie: poltrone europee, rimpasti, rapporti con la Francia, il patto di stabilità, e naturalmente l’eterna questione migratoria.
Meloni ha dalla sua il comando e l’agenda. Salvini ha solo la nostalgia di un’epoca in cui i porti chiusi erano una bandiera e non una stanca replica.
Conclusione
Salvini vuole tornare protagonista. Meloni vuole evitare il remake. Il Viminale è il simbolo di un potere che oggi non appartiene più al Capitano, ma alla Premier. E Giorgia non ha alcuna intenzione di lasciare il timone. Sa benissimo che, in politica, quando apri una porta per accontentare qualcuno, poi ti trovi a chiudere le finestre per sopravvivere.
E lei, per ora, vuole solo una cosa: restare viva al centro della scena. Anche a costo di vedere Salvini recitare fuori copione, nel retropalco.