Tra carne e terra: lettura dell’opera di Luciano Di Gregorio

 

L’immagine che Luciano Di Gregorio ci offre è un’opera stratificata, fatta di contrasti, di sovrapposizioni e di tensioni sospese tra passato e presente, tra bellezza e disfacimento, tra iconografia sacra e carne viva.

Al centro, il volto di una giovane donna, nitido, realistico, quasi rubato a un dipinto del Seicento. Il turbante che le avvolge il capo richiama le pose femminili delle grandi ritrattistiche europee, da Vermeer a Caravaggio, ma qui lo sguardo è diverso: più diretto, più inquieto, più consapevole. Non c’è compiacenza nella sua posa, ma una sottile sfida, un invito muto a guardare meglio, a superare la superficie.

La sua bocca – sfumata, sbavata, forse ferita – è uno degli elementi più disturbanti e potenti dell’immagine. Sembra alludere a qualcosa che è stato detto o taciuto con violenza. È rosso sangue, rosso frutto, rosso simbolico. È bellezza che si rompe, è voce che brucia. Qui si compie la prima rottura della figura: la classicità si incrina.

Ma è nella fusione con la natura che l’opera esplode nella sua dimensione simbolica più profonda. La parte inferiore del corpo si dissolve in una natura morta rinascimentale, un trionfo di foglie, uva, frutti rossi e secchi, un cesto che sembra traboccare di abbondanza, ma che al tempo stesso parla di caducità, decomposizione, passaggio. L’organico si fonde con l’umano, e non si sa più dove finisce il corpo e dove inizia la terra. Il femminile si fa nutrimento, autunno, metamorfosi.

Lo sfondo, ruvido, crepato, ricorda un muro antico, segnato dal tempo e da eventi non detti. Le macchie rosse – croci, segni, bruciature – sono ferite simboliche, segni di una passione (nel senso cristiano e carnale), tracce di una storia vissuta e incisa nella pelle e nello spazio. Non si tratta solo di una donna, ma di un archetipo femminile, che raccoglie in sé secoli di rappresentazione, repressione, desiderio e potere.

Luciano Di Gregorio lavora qui come un alchimista visivo: prende il linguaggio del ritratto classico e lo contamina con elementi della cultura visiva contemporanea – fotografia, collage, texture digitali – in una sintesi che è al tempo stesso omaggio e critica. La sua figura non è solo una donna: è corpo, paesaggio, icona, frutto, reliquia. È una Venere barocca sopravvissuta all’incendio del mondo, che guarda lo spettatore con occhi pieni di memoria e disincanto.

In quest’opera, la bellezza non è mai fine a sé stessa. È un passaggio, una soglia, un campo di battaglia tra ciò che siamo e ciò che temiamo di perdere. È fragile, inquieta, viva.

E chiede di essere guardata con lo stesso rispetto con cui si guarda qualcosa di sacro e ferito.