miart 2025: il mercato si difende, ma l’arte dov’è?
di Luciano Di Gregorio
A volerla dire tutta, miart 2025 non è stata né un trionfo né un tracollo. È stata esattamente quello che oggi una fiera d’arte tende a diventare: un compromesso ben allestito tra glamour, marketing e diplomazia culturale. Ma sotto la superficie elegante delle gallerie e il calore rassicurante dei numeri, resta una domanda che nessuno osa più fare ad alta voce: che ruolo ha oggi l’arte nelle fiere d’arte?
Con 179 gallerie da 31 paesi, distribuite nelle sezioni Established, Emergent e Portal, miart ha disegnato un panorama ben confezionato, in cui oltre 1.200 opere raccontavano un secolo di estetiche e mercati, dal primo Novecento al contemporaneo più fresco. Eppure, a camminare tra gli stand – pur belli, pur curati – si respirava più il battito del mercato che il fiato dell’arte.
Il moderno resiste perché rassicura
La notizia, quest’anno, è che il moderno ha funzionato meglio del contemporaneo. Le opere di metà Novecento – quelle che per anni erano state oscurate da giovani pitture fresche di studio – sono tornate protagoniste. Non per una riscoperta culturale, ma per un bisogno di solidità. Come nei momenti di crisi si torna al mattone, così nelle fiere si torna a Carrà, Morandi, Fontana.
Ma la forza del moderno, oggi, è anche la debolezza del contemporaneo: tante opere giovani, troppe forse, sembrano fatte per piacere al format, non per bucare lo schermo. È l’arte da fiera: intelligente ma non troppo, provocatoria ma vendibile, identitaria ma neutra.
Le fiere sono ancora luoghi di ricerca?
La domanda è legittima. Una volta le fiere d’arte erano anche – se non soprattutto – occasioni di scoperta. Luoghi in cui il collezionista rischiava, il curatore si innamorava, l’artista si esponeva. Oggi, invece, il rischio è ridotto a margine. Anche nelle sezioni “emergenti”, spesso si trova giovane decorazione da Instagram, più che scommesse vere.
Miart resiste, certo. E va riconosciuto che tiene duro in un momento globale in cui anche solo “tenere” è un verbo forte. Ma quanto resistere coincide con restare rilevanti?
Il pubblico c’è, ma resta spettatore
La preview ha visto una buona affluenza, i corridoi erano pieni, il networking vivace. Ma passata l’euforia iniziale, i giorni successivi sono stati più tiepidi. Il mercato rallenta, i collezionisti selezionano, le vendite sono caute. E anche il pubblico – presente, curioso, educato – non sembra più cercare nell’arte un’esperienza di sconvolgimento, ma un selfie ben composto.
E allora la fiera, tutta la fiera, diventa una grande scenografia di consenso, dove l’estetica è pensata per non disturbare, l’idea per non dividere, la critica per non offendere.
E i premi? Ossigeno, ma non antidoto
I premi, i fondi di acquisizione, le committenze: certo, servono. Funzionano. Tengono vivo il meccanismo. Il Fondo di Acquisizione di Fondazione Fiera Milano, con i suoi 100.000 euro e 15 opere selezionate, è un gesto concreto, importante, da valorizzare. Ma non è un indice di salute culturale, è una terapia di supporto.
La fiera come sintomo
Miart 2025, insomma, non è un problema. È un sintomo. Il sintomo di un sistema dell’arte che fatica a rinegoziare il suo senso. In un mondo che brucia crisi su crisi, pandemia, guerra, catastrofi climatiche, intelligence digitale e spaesamento emotivo, l’arte non può essere solo decorazione di lusso o investimento diversificato.
Ma per esserlo – per tornare a essere linguaggio, trauma, pensiero, rottura – ha bisogno di spazi meno asettici, meno prevedibili, meno benpensanti. E la fiera, per definizione, non è più quel luogo.
In sintesi?
Miart ha funzionato. Ma forse è proprio questo il problema.